1)Ricerca etimologica sull' interiezione urrà,1998
2)Collocazione della stesura di C.S. 186 nell'ambito del soggiorno romano di De Victoria e circostanze relative alla nuova versione stampata in Officium Hebdomadae Sanctae,1999
3)Le lingue neolatine regionali,2001
4)Il museo multimediale nella Casa della Musica a Parma, 2003
5)Introduzione al CD dedicato ai Responsori di Natale Pelicci (1845)
1) Ricerca etimologica sull' interiezione urrà
Articolo pubblicato su Rassegna Armenisti Italiani, I, 1998
Nel corso dei miei studi per la tesi di dottorato in Armenistica, imbattutomi più di una volta nella parola armena urah: (gioia), frequente nei testi come altre della stessa famiglia (uraxanal, uraxut'jun), mi sorse improvvisa una domanda fino ad allora sopita: vista l’ innegabile affinità semantica, ci può essere un qualche rapporto con l’ esclamazione internazionale di allegria che in italiano suona urrà? Potrebbe questo essere un pressocché unico caso di parola venutaci dal Caucaso? La radice non è infatti indoeuropea (non compare nemmeno in persiano, la lingua lessicalmente più affine all’ armeno) e si trova viceversa in georgiano, nella forma ura .Per appurare la verità mi rivolsi a due recenti dizionari etimologici italiani, quasi certo di trovare pronta smentita e una convincente risposta alternativa. Con sorpresa, mi trovai invece impegnato in una gara di rimandi e mezze ipotesi che in fin dei conti rilanciavano la mia intuizione nel mondo del possibile.
Ecco il responso di Battisti-D’Alessio : non danno etimo e ritengono che la prima attestazione si trovi nel Fanfani-Arlia del 1877.
Più informati, Cortelazzo-Zolli segnalano come prima attestazione italiana un hurrà in Stampa milanese del 1822, ma anche loro si arrendono sull’ etimo: Etimologia incerta, di poco chiara derivazione straniera... Il commento dell’ Ugolini (chi usasse questa esclamazione parlerebbe da barbaro cosacco ) pare alludere ad una provenienza, presunta o reale, russa.
Ricavato così poco, mi rivolsi ad abundantiam al vecchio Tommaseo , che, certo superato oggi per l’ aspetto scientifico, era però un geniale conoscitore del lessico. La mia fiducia nell’ antico maestro fu premiata da queste righe, nascoste al quarto paragrafo della lettera H, visto che manca una voce autonoma: Il barbarico grido Hourra o Hourrà, che ci venne dalla patria degli ukase [quindi la Russia, n.d.r.] e che è la benedizione del pontefice moscovita [...] accade di scriverlo Hurra e Urrah.
L’ associazione di urrà a una benedizione in slavo ecclesiastico mi suonava davvero bislacca, ma ad ogni modo trovava conferma la vaga notizia di un’ origine russa.S’ imponeva quindi una lettura della voce nel più recente dizionario etimologico russo , di Çernih: Grido di guerra all’ entrata nella mischia con i nemici (I accezione riportata). Come seconda accezione indica: consenso, ammirazione. Il dizionario segnala che le lingue slave orientali, compreso dunque il russo, hanno forme senza l’ aspirata iniziale che compare invece in sloveno, ceco, slovacco, polacco.Prosegue poi così: Non si hanno attestazioni credibili dell’ uso di questa parola nelle fonti antiche russe. Secondo il compilatore, il primo esempio sicuro è nel Moskovskij Z’urnal del 28.VII. 1707: kric’ali tri raza ura (gridarono tre volte urrà). Informa inoltre che il lessicografo Lomonosov, nel 1755, ancora non lo elenca tra le interiezioni d’ uso. Per alcuni la derivazione sarebbe dal turco: Lokotsch adduce la forma (w)urmak= colpire, uccidere, usata con senso imperativo come grido guerresco.
Çernih trova insoddisfacente questo accostamento. Caso mai, segnala, c’ è chi ha tentato di dare un’ origine occidentale alla parola russa, accostandola al grido di gioia tedesco hurra , preso a sua volta dall’ omofono e omografo inglese; prestito da queste lingue è il francese hourra . Anche le lingue scandinave presentano questa parola. Tuttavia, aggiunge Çernih, è curioso che il ted. hurra sia attestato dai vocabolari solo nell’ ultimo quarto del XVIII secolo; il fr. hourra è noto solo dal 1830 e poco prima l’ inglese. Vale a dire che l’ attestazione russa precede di molto quelle occidentali.Inoltre Çernih dichiara indiscutibilmente noto che in Francia hourra / houra, come denominazione del grido d’ attacco dei cosacchi e altri reparti di cavalleria zaristi non era conosciuto prima della campagna napoleonica russa: 1812. Né ritiene possibile una derivazione, sostenuta da alcuni occidentali, dal medio alto tedesco hurren = muoversi velocemente, alla luce dei dati cronologici e della differenza semantica. Ma anche il russo non può essere forma originaria: non è spiegabile all’ interno dello slavo.
Sintetizzando la notevole massa di dati fornita dalla lettura del dizionario etimologico russo, emergono tre circostanze:
1) il russo è la prima lingua europea moderna a presentare la nostra interiezione con il significato attuale e la sua introduzione è legata alla presenza di truppe, in particolare cosacche;
2) l’ etimo remoto è però extraslavo;
3) esistono tentativi, pur contestabili, di trovare l’ etimo in area germanica.
La ricerca doveva proseguire tenendo conto di questi punti.
Per prima cosa, pareva utile la consultazione di un contributo di Mirtov sulla lingua dei cosacchi del Don .Egli indica la forma esclamativa urano nel ritornello di canzoni: Chmel molod !Urano ! Quindi i cosacchi conoscevano davvero un’ esclamazione derivata per ampliamento dalla nostra radice.Resta da capire da dove l’ avessero presa, visto che non è slava.
A questo punto della ricerca, gl’ indizi rendevano necessaria la consultazione dei dizionari etimologici di lingue germaniche. Ecco l’ Oxford English Dictionary : A later substituted for HUZZA, perhaps merely due to onomatopeic modification, but possibly influenced by some foreign shouts. MHG had hurr, hurrâ as interjections representing rapid whirring motion (hurren to rush). Per Oxford la prima attestazione inglese è in Addison, Drummer , V,i nella forma Whurra .Molto precoce, quindi, rispetto alle informazioni di Çernih, ma comunque posteriore al russo, rispetto alla quale presenta l’ aspirazione iniziale.
Se prendiamo invece il recente etimologico tedesco, leggiamo che si tratterebbe del durch a¯ intensivierte Imperativ mhd hurr¯a , zu mhd (heute noch mundartlichen) hurren sich schnell bewegen. Incerto l’ accostamento con il lat. currere . Il dizionario lo ritiene indipendente dal grido inglese hurra , verosimilmente derivato dahuzza , che entrerebbe solo a fine XVIII nella lingua dei marinai. Secondo questa ipotesi i due gridi sarebbero nati autonomamente e si sarebbero poi fusi in un’ unica accezione.
Gli studiosi inglesi e tedeschi lasciano quindi aperto il varco a dubbi ed incertezze: pur non nominando il russo tra i candidati, pensano ad etimi incrociati e alludono, nel caso dell’ inglese, all’ influenza d’ imprecisati gridi stranieri.
Perché non controllare anche l’ opinione della scuola etimologica francese?Bloch e Wartburg danno la voce hourra (hurra ) come derivata dall’ inglese o dal tedesco, dove è attestata dal Medioevo. Ma nel senso di grida lanciate dalle truppe russe, specie dai Cosacchi, e di attacco imprevisto è attestata dal 1829.E’ stata presa durante il I Impero da ura.
Molto interessante. Ancora il russo, ancora la possibilità d’ incrocio etimologico.Ma allora, per tornare all’ ipotesi di partenza: abbiamo indizi che permettano di trovare questo sconosciuto proprio nella parola armena urax ?Ebbene, è noto dalla storia che i contatti tra Armenia e Russia si stavano creando e intensificando proprio alla fine del Seicento, all’ epoca di Pietro il Grande, cioè subito prima della prima comparsa di urà in russo. Già nel 1673, rappresentanti armeni capeggiati dal Katholikos Jakob IV si rivolgono allo zar Alessio pregandolo in nome della comune fede cristiana di liberarli dal giogo turco; nel 1701 il patriota Israel Ori presenta a Pietro un piano di liberazione dell’ Armenia e d’ istaurazione di uno stato armeno. Sono fatti già noti, riportati dalle enciclopedie sovietiche: testimoniano interesse reciproco, contatti, ma certo non basterebbero a far pensare che un’ esclamazione armena diventi d’uso tra i cosacchi.
Devo alle prodigiose conoscenze e all’ amicizia del collega Aldo Ferrari una segnalazione che permette di portare oltre l’ indagine. L’ articolo di Shevçenko Armjane v ukrainskom kozakom bojske b XVII-XVIII dd. , dedicato alla presenza di Armeni tra i Cosacchi nei secoli XVII e XVIII è di lettura utilissima. Attestato che in documenti polacchi di quel tempo gli Ucraini vengono definiti nacja kozakov, è poi lo stesso governo polacco a tramandarci che tra i cosacchi erano rappresentate molte nazionalità.Quando i Cosacchi presero a formarsi, nel XV secolo, molti Armeni già vivevano in Ucraina. La loro presenza andò aumentando col tempo, come attesta l’ esistenza di una grande chiesa armena a Kiev nel XVII secolo. Una famiglia armena, i Dußbekeniç (si noti il tipico suffisso -iç degli Armeni abitanti in città ucraine) è citata nel 1505 tra i Cosacchi della città di Çerkass.
Un elenco di Cosacchi del 1581 riporta nomi di aspetto armeno.Impulso all’ ingresso di Armeni tra i Cosacchi è dopo il 1640 circa la lotta alla Polonia e alla Chiesa Cattolica.Il Registro del 1649 cita esplicitamente gli Armeni tra le ventuno nazionalità dell’ esercito cosacco. Sono prevalentemente Armeni dell’ Ucraina occidentale, naturalizzati e con cognomi slavizzati che talora possono renderne dubbia l’ identificazione. Ma esistono casi chiarissimi, come un Makar Ormenenko che ad un cognome di evidente trasparenza unisce il tipico suffisso ucraino-enko.
La notizia forse più interessante fornita dall’ articolo in questione è che il 25 febbraio 1660 una lettera ci testimonia l’ esistenza di un colonnello dei Cosacchi, Ivan Fedorov, armeno, impegnato nelle lotte contro i Tartari.Se un Armeno era arrivato, e dopo secoli di presenza della sua etnia tra i Cosacchi, ad occupare un posto di comando elevato, non dovrebbe essere impossibile immaginare che un grido armeno potesse entrare come comando,segnale o esclamazione nel gergo cosacco.
Mancano purtroppo documenti relativi ad Armeno-cosacchi dei decenni seguenti, ma questa carenza è quella in genere sugli Armeni in Ucraina e comunque siamo arrivati veramente alle soglie di quel 1707 che vede comparire urrà nel lessico delle lingue europee moderne.
Indubbiamente le notizie attinte dall’ articolo di Íevçenko non bastano di per sé a rendermi certo dell’ etimologia ipotizzata; è altrettanto vero che la perdita dell’ aspirata finale di urah: rispetto al russo potrebbe costituire una piccola difficoltà fonetica; tuttavia i risultati provvisori di questa ricerca m’ incoraggiano almeno nel pensare di non avere perso tempo correndo dietro a una chimera.
2) Questo è un capitolo centrale della mia tesi di dottorato in Paleografia e Filologia Musicale. E’ stato discusso a Cremona nel dicembre del 1999 e riguarda un manoscritto poco noto di Toma’s Luis de Victoria.
Capitolo II
Collocazione della stesura di C.S. 186 nell'ambito del soggiorno romano di De Victoria e circostanze relative alla nuova versione stampata in Officium Hebdomadae Sanctae. Ipotesi precedenti e mie.
La vexata quaestio sulla data cui far risalire la stesura del manoscritto C.S. 186 è tuttora irresolubile con elementi esterni probanti e definitivi. Per tentare una valutazione delle ipotesi finora elaborate e per avanzarne eventualmente una nuova, è indispensabile por mente ai dati che possediamo a riguardo del lungo soggiorno romano dell'Abulense.
De Victoria giunse a Roma subito dopo la muta della voce, a diciassette anni (forse non ancor compiuti) nel 1565.Alloggiò come convittore (cioè allievo interno pagante) presso il Collegio Germanico, che fondamentalmente si occupava di formare missionari per la controriforma in terre passate al protestantesimo. E' un'ipotesi di Casimiri, accettata anche da Stevenson e in effetti assolutamente verosimile, che De Victoria abbia fatto conoscenza, in quegli anni di studio, con i due figli di Palestrina che frequentarono dal 1566 al 1571 il limitrofo Seminario Romano: tale istituto, dove Palestrina lavorava come maestro di cappella in cambio per ottenere ai figli l'esenzione dalla retta, era vicino al Collegio Germanico. L'idea che il giovane spagnolo abbia potuto avere accesso anche all'illustre padre dei suoi due coetanei risulta, benché non suffragabile, di accettazione piuttosto ovvia: la possibilità di questa conoscenza, come vedremo oltre, potrebbe rivestire particolare interesse proprio per la storia del C.S. 186.
Nel 1569 De Victoria ottenne l'incarico di cantore e organista (come spiega Stevenson , la dicitura dovrebbe indicare il maestro di cappella) a Santa Maria di Monserrato, chiesa nazionale degli Spagnoli, cui si unirono incarichi almeno occasionali nell'altra, la parrocchia di San Giacomo degli Spagnoli, a partire dal 1573: in essa ebbe la consuetudine di fornire le musiche per il Corpus Domini.
Nel frattempo (1572) uscì il primo libro dei Mottetti, che contiene già l'essenziale della sua arte in forma matura e progredita. La dedica del volume al cardinal Truchsess avvalora le ricostruzioni di Casimiri e Pedrell secondo cui il nostro compositore sarebbe stato maestro di cappella del Cardinale tra il 1568 e la fine del 1572.
Morto il Cardinale, De Victoria trovò nuovi incarichi nel 1573, stavolta proprio al Collegio Germanico e al Seminario Romano, che lo nominarono rispettivamente professore di cantus planus e maestro di cappella.
Tutte queste incombenze, si noti, venivano affidate a un giovane che era ancora a tutti gli effetti un laico. Solo nel marzo 1575 il musicista si risolse a prendere gli ordini minori. Da quel momento bruciò le tappe di una vocazione relativamente tardiva e gli venne consentita la consacrazione a sacerdote già il 28 agosto dello stesso 1575. Una tale rapidità (solo tre giorni intercorsero tra la nomina a diacono e quella a prete!) testimonia a sufficienza della larga stima e fiducia che dovevano ormai circondarlo nell'ambiente clericale romano. Torneremo più sotto alla circostanza di un'ordinazione così tardiva ma rapida, per riflettervi a proposito di C.S. 186.
Nello stesso 1575 lasciò Santa Maria di Monserrato per occuparsi del nuovo e promettentissimo coro di S.Apollinare, chiesa annessa al Collegio Germanico.
Rimase maestro di cappella al Germanico fino al 1578. In quella data entrò nella congregazione dell'Oratorio di san Filippo Neri. I membri dell'Oratorio dovevano vivere del proprio lavoro. Ciò fu certo un ulteriore impulso per il compositore, che pure poteva contare su diverse rendite ecclesiastiche spagnole , a pubblicare nuove raccolte.
Ne uscirono due nel 1581, due nel 1583 e due nel 1585: dalle vendite l'autore contava di
ricavare cifre apprezzabili : è Stevenson a riferirci di un commercio epistolare tra il musicista e il capitolo della Cattedrale di Siviglia, cui l’autore, soddisfatto della cifra a suo tempo ricevuta per il Libert primus del 1576, invia speranzoso anche le pubblicazioni del 1581 .
Intanto De Victoria era attivo anche presso San Girolamo, la chiesa della sua nuova congregazione.
Sicuramente tanta mole di lavoro doveva esser gravosa per una persona di acuta spiritualità che desiderava non trascurare i doveri del proprio stato religioso. Nella dedica a Filippo II, il monarca spagnolo, dei due libri di Messe editi nel 1583, De Victoria, in effetti, dichiara di sentirsi già esausto per il troppo comporre, desideroso di darsi alla contemplazione e addirittura intenzionato a tornare in patria, dopo tanti anni trascorsi in Italia.
In realtà, però, in Italia restò ancora, né certo si risparmiò nuovo lavoro, se pensiamo anche solo alla comparsa, nel 1585, dell'Officium, appunto la grandiosa opera che contiene tra l'altro la nuova versione, quella universalmente nota e diffusa, delle Lamentazioni. Anzi, nel 1583 è attestato che proprio dal 1583 il musicista entrò a far parte (pur non essendo assiduo alle riunioni) della Confraternita della Risurrezione, appoggiata dal 1579 alla citata parrocchia di San Giacomo (però con una contabilità indipendente) allo scopo di prender cura dei malati e dei prigionieri, in particolare se di nazionalità castigliana. Sono conservate ben ventisei ricevute di pagamenti effettuati da De Victoria in sostegno di confratelli infermi. Inoltre gli archivi della Confraternita lo nominano nel 1583/84 per l’animazione musicale delle Quarant’ore e, in mancanza di altri nomi, è supposto aver coordinato l’attività musicale della Pasqua 1583. Secondo gli statuti della pia associazione, era impegno saliente la celebrazione solenne (quindi con largo spazio alla musica) non solo ovviamente- della Pasqua, ma di Giovedì e Venerdì Santo, oltre a quella del Corpus Domini. Ciò può aver incoraggiato l’uscita dell’ Officium Hebdomadae Sanctae.
Il ritorno in Spagna accadde, a quante pare, solo nel 1587, per servire come cappellano dell'imperatrice vedova Maria nel convento delle Clarisse Scalze (Descalzas Reales ). Cramer sostiene che già prima, però, De Victoria avesse avanzato la propria candidatura e preso accordi informali per un incarico a così alto livello. Proprio alla luce di queste manovre Cramer legge la surriportatata prefazione dedicatoria all'imperatore Filippo nel 1583: anche l'abbondante uso di melodie iberiche come il Pange lingua more hispano e il tono di lettura monodica spagnolo come struttura portante di quasi tutti i brani presenti nell'Officium gli pare un'affermazione nazionale volta a preparare il terreno per il rientro. L'analisi strutturale di Cramer, contenuta nell'introduzione alla sua già citata edizione dell'intero Officium Hebdomadae Sanctae , è molto stringente almeno per quanto attiene all'uso del Pange lingua nelle Lamentazioni, mentre forse sembra meno probante per il resto, ma rappresenta, comunque sia, un deciso passo in avanti rispetto alla rinunciataria posizione di Massenkeil .
Tuttavia è possibile proporre spiegazioni diverse per le parole rivolte a Filippo II nella dedica: ma a questo punto il discorso va proprio a coinvolgere la datazione delle Lamentazioni e la motivazione del loro rifacimento a stampa.
Torniamo allora al punto cruciale della nostra questione: la versione delle Lamentazioni offerta da C.S. 186 ha preceduto l'altra? Non è mai stato possibile averne la certezza con criteri esterni: mancano notizie contemporanee sull'argomento e il manoscritto sistino non sembra autografo né riconducibile con certezza all'opera di un preciso copista (cfr. la descrizione di C.S. 186 preposta alla trascrizione).
Secondo P. Samuel Rubio fu il musicologo F.X.Haberl a scoprire il manoscritto I-Rvat 186 nel secolo scorso, notandone le differenze con quanto precedentemente conosciuto.
Nel suo articolo, Rubio, affermava che ""[...] nuestro gran polifonista [...] sometió sus obras [...] a un continuo proceso de perfeccionamento, de tal forma, que la
mayor parte de sus reediciones ofrecen ligeras variantes [...] con respeto a las anteriores. Perdidas, quizá para siempre, algunas de estas reediciones, sólo nos será posible conocer las diferentes lecciones introducidas en ellas, a través de los manuscritos copiados a base de las mismas. Así, en un manuscrito de Roma encontró el gran musicólogo alemán F.X. Haberl una versión de las Lamentaciones, bastante diferente de la publicada por Victoria en su famosísimo Officium [...], impreso en Roma en 1585 [...] ". Da queste parole, par d'intendere che Rubio fosse propenso a ritenere il manoscritto posteriore alla stampa. Ma si noti che all'epoca lo spagnolo non aveva ancora studiato direttamente tale sconosciuto testimone.
Si schierò invece per la tesi opposta Robert Stevenson , definendo la versione della Sistina anterior a la impresa per motivi espressivi: "[...] Pero, pese a lo refinada que esta primera versión [cioè C.S. 186] pueda resultar, las nueve lamentaciones fueron nuevamente destiladas en un alambique y sus saladas lágrimas purificadas aún más antes de llegar a imprimirse en 1585. "
Del resto, già Pedrell, nel 1913, vergando l'introduzione al vol. VIII della sua edizione completa, aveva affermato (p.xcviii): "[...] Basta una ligera inspección para convencerse de que las [lamentaciones] del códex fueron el primer esbozo o una de las primitivas lecciones [...]. Se asiste a un verdadero proceso de construcción arquitectónico-sonora [...] ante la busqueda de perfección de la obra artística dirigida a obtener un todo estético perfecto y acabado [...] ".
Si unisce ancora decisamente al parere di Stevenson e Pedrell anche Rive, autore del fondamentale articolo "Victoria's Lamentationes Geremiae: a comparison of Cappella Sistina MS 186 with the corresponding portions of Officium Hebdomadae Sanctae (Rome, 1585), apparso nel 1965 in Anuario Musical, Barcellona. In esso, l'autore, dopo aver rilevato tutti gli errori dell'edizione Pedrell (ma dovuti all' intervento del Dagnino: ne abbiamo parlato in precedenza, nella introduzione) confronta alcuni passi delle due versioni dal punto di vista tecnico e stilistico, per concludere così (a p.199): "All the evidence of comparison points [per il mscr.] to an early date, but unless and until exact information is forthcoming we shall have to be content with conjecture.What is certain is that, between the date of his first beginning the composition and the date of its pubblication in 1585, Victoria's technique of composition made tremendous advances [...] ".
Per finire, ecco il netto e conciso parere di Cramer , lo studioso attualmente così in vista nel campo degli studi su De Victoria: "The Lamentations in this manuscript [scil.C.S. 186] are actually an earlier version of the Lamentations included by Tomás Luis de Victoria in his 1585 publication ".
Sia pure quindi in conformità a criteri forzatamente stilistici, tutti gli studiosi moderni sono giunti a conclusioni simili: l'edizione rimasta manoscritta all'epoca dell'autore precede quella passata alla stampa.
Ma di quanto tempo la precede? Si può provare a formulare un'ipotesi più precisa. Un tratto macroscopico che colpisce subito chi affronti lo studio di C.S. 186 è la presenza, nella seconda Lectio del Giovedì Santo, di un grave errore testuale . Prima del versetto Peccatum peccavit Jerusalem , invece di comporre gli usuali melismi introduttivi sulla lettera ebraica Vau, l'autore musica la lettera Zayn. Che si tratti di uno sbaglio e non dell' ipotetica rimanenza di uno stadio precedente, quando il testo dei Notturni non era ancora stato definitivamente sancito dal Concilio di Trento, è confermato dal confronto con le varie fonti, esaminate nel Capitolo 1, che precedettero l'uscita del Breviarium Romanum, edito nel 1568 per dare definitiva stabilità ai testi: i Breviari del cardinal Quiñones (1535 e 1563) e l'Officium Hebdomadae Sanctae edito da Varisco nel 1565. In nessuno di essi si ha tale inusitata associazione tra lettera e versetto. In effetti,De Victoria emendò la svista nell' edizione del 1585, mediante una grossa variante al contempo destitutiva e sostitutiva: eliminò del tutto lettera Zayn e versetto Peccatum peccavit Jerusalem , salvando però la musica attribuita prima alla lettera e abbinandola stavolta alla Vau che precede il versetto Et egressus est.
Questa irregolarità testuale di C.S. 186 impone a mio parere,anche se finora nessuno sembra essersene reso conto, un termine ante quem per la redazione del manoscritto. Se rammentiamo infatti l' ordinazione che De Victoria ottenne nel volgere dei pochi mesi passati tra il marzo e l' agosto del 1575, non possiamo sottrarci alla seguente considerazione: un novello sacerdote, sicuramente di alto livello intellettuale e di spiritualità tanto acuta da essere ammesso al sacerdozio praticamente non appena lo desiderò, non può non avere avuto una costante e seria pratica del Breviario. Ora, il Breviarium Romanum del 1568, stante la sua normatività e la rigorosità nella scelta dei testi liturgici, era stato un evento editoriale atteso e ben presente allo spirito di chi seguisse le vicende liturgiche. Si può pensare che il sacerdote De Victoria non lo considerasse, al punto da non verificare i testi che stava musicando? Testi che per di più, in quanto prete, era tenuto a conoscere e recitare personalmente?
Sembra impensabile. Se dunque non è addirittura precedente all' uscita del Breviario (1568), la stesura del manoscritto sistino in questione non dovrebbe in alcun modo risalire a un anno successivo al 1575 .
Questa conclusione si può accordare bene con l'ipotesi avanzata da Cramer sul finire dello studio introduttivo alla sua edizione dell'Officium : "[
] various aspects of the manuscript point to at least two layers of composition. The first layer was probably written c. 1564, and the set of lamentations was probably completed sometime later, probably c. 1570". Questa doppia datazione, interessante benché da non ritenersi tassativamente provata né precisissima sulle date è dovuta al fatto che Cramer ravvisa almeno due diverse mani nella stesura di C.S. 186: discordando sia da Haberl, sia da LLorens (si veda la Descrizione del manoscritto), arriva a ipotizzare che le diverse scritture siano di De Victoria che procede al completamento dell'opera in diversi momenti. Senza arrivare forse a tanto, all'esame diretto è evidente almeno che la mano e l'inchiostro che aggiunsero i diesis non coincidono con il resto; e che due mani diverse hanno (si veda ancora la Descrizione) segnato sui fogli i nomi di De Victoria (all'inizio del Giovedì Santo) e di Palestrina (all'inizio del Sabato Santo). Pare accettabile la considerazione di Cramer, secondo la quale chi scrisse "Io. Prenestinus" dovrebbe essere anche il responsabile dei diesis. Ora, può non essere una coincidenza che proprio solo nel Sabato Santo (dopo la comparsa del nome di Palestrina) inizi l'uso, prima assente, della "coda di topo" per indicare la fine di una sezione testuale. Senza possibilità di addurre ulteriori prove si deve essere estremamente cauti nelle deduzioni, ma, al semplice stadio di ipotesi di lavoro da accertare, non sembra del tutto fuori luogo un sospetto: sospetto che sviluppa del resto il ragionamento di Cramer. Se rammentiamo come il giovane De Victoria, convittore del Collegio Germanico, abbia potuto (vedi sopra) frequentare tra il 1566 e il 1571 i figli di Palestrina, alunni del Seminario Romano, potremmo pensare anche che loro padre abbia trovato particolarmente interessanti le doti professionali del loro amico castigliano. Non riesce difficile immaginare il promettente De Victoria che si abbevera alla fonte del più grande polifonista contemporaneo, intrecciando discussioni tecniche e chiedendo pareri. Mi permetterei allora anche d'immaginare che, se De Victoria aveva per caso iniziato, magari proprio sull' esempio di Morales, a comporre delle Lamentazioni, Palestrina, venutone a conoscenza ed esaminatele, potrebbe esserne stato colpito tanto favorevolmente da incoraggiarlo a completarle e forse addirittura da presentarle in Sistina, quasi biglietto da visita di un autore emergente, raccomandato da un affermato professionista. Palestrina avrebbe cioè invitato De Victoria a completare la redazione (o far completare la copiatura) di C.S. 186, forse già avviata (quest'ipotesi spiegherebbe l'evoluzione della grafia nel manoscritto, sia o no un autografo victoriano) e l' avrebbe presentato personalmente, come opera degna d'ascolto, ai cantori della Cappella, segnalando il proprio nome (ecco forse dunque l'origine di quell' altrimenti misterioso Io. Prenestinus ) come mallevadore del giovane collega. Quanto ai diesis, evidentemente segni d'uso per una lettura concreta dei brani, si può inferire che siano stati aggiunti da un cantore esperto nei punti in cui, a suo parere, non ne risultava ovvio l'inserimento secondo le consuetudini della musica ficta. Che li abbia suggeriti o aggiunti addirittura Palestrina? Perché no?, ma è indimostrabile. Tutto questo potrebbe essere avvenuto più o meno nel momento ipotizzato da Cramer per la redazione di C.S. 186; eventualmente si può esprimere preferenza per una data entro il 1568, che renderebbe più sostenibile la citata anomalia testuale di Zayn-Peccatum peccavit Jerusalem del Giovedì rispetto all'edizione ultimativa del Breviario.
La presentazione di C.S. 186 in Sistina non valse a De Victoria un incarico nella cerchia papale, anche se certo può aver contribuito allo sviluppo della sua carriera e all'ingresso in Santa Maria di Monserrato. A quanto si evince dalla biografia di Baini , che conosceva bene il codice C.S. 186, lo stile victoriano risultò in quelle Lamentazioni troppo esotico per il gusto italiano. Molti particolari erano estranei alle consuetudini locali: la frequente quarta diminuita, la rigorosità modale mantenuta in ognuna delle nove Letture, l'amplificazione della perorazione finale, in genere la lunghezza. Baini dice esplicitamente che le Lamentazioni di C.S. 186 gli risultavano certo meno pesantemente fiamminghe di altre precedenti come quelle di Carpentras, ma d'altro canto troppo spagnole; anzi, le bollò addirittura come "generate da sangue moro".
L'analisi delle modifiche apportate nell'edizione a stampa (cfr. capitolo 3) mostra come De Victoria abbia tenuto conto di questi problemi e abbia in un certo senso avvicinato le nuove Lamentazioni al gusto romano corrente.
Detto ciò, volgiamo l'attenzione al motivo profondo (vale a dire non di puro rinnovamento stilistico) che può aver causato il rifacimento delle Lamentazioni nel 1585.
Si potrebbe concedere a Cramer che (cfr. nota 8) De Victoria abbia pubblicato l'intero Officium Hebdomadae Sanctae avendo di mira un suo eventuale uso al Monastero delle Descalzas Reales dove ambiva sistemarsi una volta tornato in Spagna; è possibile anche riconoscere che a tale scopo potrebbe, in effetti, ben accordarsi l'uso del tono di lettura spagnolo e del Pange lingua more hispano come spunti melodici prevalenti nella strutturazione del materiale sonoro (benché sapientemente misti, talora, con reminiscenze del tonus romanus cui si faceva cenno nel Capitolo I) .
Eppure lo studio delle date rende plausibile, benché non irrefragabilmente dimostrabile,
anche un'altra spiegazione. Si è visto già nel 1583 un De Victoria che nella dedica a Filippo II si dichiara stanco di comporre e desideroso di contemplazione: come mai aspettò ben quattro anni a rimpatriare effettivamente? Come mai invece di riposarsi pubblicò niente meno che l' Officium Hebdomadae Sanctae ? Come mai si prese il disturbo di rivedere così a fondo le Lamentazioni che avrebbe potuto pubblicare con semplici ritocchi ? Infine: come mai un'opera monumentale quale l' Officium uscì, unico
esempio, senza dedica , quando sarebbe stato così ovvio dedicarlo a un membro della casa reale di Spagna, al fine di assicurarsi senza dubbi né ritardi il posto di musicista presso le Descalzas Reales?
Mi permetto di proporre un' ipotesi di lavoro che andrebbe confermata con un ulteriore lavoro di ricerca sui documenti, ma che in linea di principio sembra alquanto economica per spiegare queste circostanze. Ritengo possibile che De Victoria abbia atteso anni prima di lasciare Roma perché sperava che fossero le sue Lamentazioni a prendere il posto di quelle obsolete, scritte decenni prima da Genet, nel repertorio della Cappella Sistina.
L'elezione di Sisto V risale proprio all'inizio di quel 1585 nel quale De Victoria pubblica il suo "opus maximum". Con il nuovo Pontefice, forse l'imminenza di un rinnovamento musicale in Sistina era già nell'aria e percepibile: del resto, essendo lo stato di efficienza della Cappella ben lontano dall’immagine aurea che se ne ha tradizionalmente , da ogni nuovo papa ci si potevano attendere energiche misure di svecchiamento e riordino nei confronti di una situazione troppo romanamente adagiata nel compromesso e nella routine.
L' Abulense pubblica l 'Officium in un 'edizione di gran lusso (che deve essergli costata un notevole impegno finanziario, difficile da ipotizzare se non si fosse attesa un' importante contropartita) e senza dedica: niente lo lega in modo troppo vincolante a una destinazione spagnola. In esso ha grande rilievo la presenza delle Lamentazioni che, si ricordi, erano assolutamente inedite e probabilmente non circolavano per Roma nemmeno in forma manoscritta (oltre a C.S. 186 non se ne conoscono copie). Non sembra fuori luogo immaginare che De Victoria abbia scelto di rivederle a fondo e di darle così solennemente alle stampe per presentare implicitamente la sua candidatura a sostituire le antiche. Né ci è impossibile intuire quanto possa averlo deluso che Sisto V abbia poi invece scelto d'incaricare per questo scopo Palestrina. Fosse per nazionalismo, fosse perché nonostante la revisione le musiche victoriane sapevano ancora troppo di Spagna, o fosse un riconoscimento alla grande maestria palestriniana, resta il fatto che dal 1587 la Cappella Sistina prese ad eseguire le nuove Lamentazioni del grande maestro laziale, molto più simili, nella loro disadorna semplicità, allo stile che si riteneva indispensabile seguire nei Notturni. Potrebbe allora non essere una coincidenza fortuita che proprio solo dal 1587 De Victoria, conscio di non potersi ormai aspettare dall'ambiente romano nulla di adeguato al proprio valore, risulti, stavolta concretamente, aver scelto la via del ritorno in Castiglia. Non sembri fuori luogo ipotizzare in una persona così spirituale e contemplativa un'autocoscienza professionale precisa e consapevole. Saper valutare il proprio valore non contrasta con la virtù cristiana dell'umiltà, ed è del tutto legittimo che anche un sacerdote dalla vita irreprensibile desideri lasciarsi alle spalle un'esperienza lavorativa dalla quale non crede di poter più ottenere soddisfazioni di un certo livello. Né del resto, se vogliamo parlare di umiltà, risulta da testimonianze o da scritti che De Victoria abbia mai protestato per questa mancanza di considerazione nei suoi confronti: la ricostruzione dei fatti che ho qui proposto è per ora solo dedotta e certo verosimile, ma ex silentio.
A completamento del quadro qui presentato si può forse riprendere una considerazione ancora dovuta al Baini: egli crede di leggere, tra le righe della dedica che Palestrina prepose alla propria "troppo" economica edizione (1588) delle Lamentazioni , l'espressione di un qualche risentimento contro chi si era invece potuto permettere un'edizione lussuosa. Se Baini interpreta giusto, questa sorta di stoccata tardiva verso un De Victoria ormai allontanatosi da Roma potrebbe lasciarci scorgere uno scenario polemico: un deterioramento dei rapporti tra Palestrina e De Victoria ben si adatterebbe alla situazione di rivalità in cui abbiamo immaginato che potessero trovarsi quando venne il momento di liquidare le Lamentazioni di Genet.
3)Lingue neolatine regionali
Un paragrafo che, in forma leggermente diversa, è stato pubblicato nel mio volume "Incipit" (introduzione al latino per principianti) dalle ed. Modern Languages, all'interno di un capitolo dedicato al complesso delle lingue neolatine
Lingue regionali parlate solo all’estero
-In Spagna esiste il gallego, lingua romanza che tra le prime venne scritta e arrivò ad avere un’importante produzione letteraria già nel medioevo.
Dal 1981 è ufficializzata nel Nord ovest (in Galizia, regione di antica cultura celtica) della Spagna come alternativa allo spagnolo. E’ in pratica una forma intermedia tra lo spagnolo e il portoghese.
-In Svizzera dal 1938 il romancio è riconosciuto lingua nazionale (accanto a tedesco, francese e italiano); per quanto sia parlato solo da qualche decina di migliaia di persone nei Grigioni e in Engadina, dal 1996 è stato dichiarato anche lingua ufficiale per i soli cittadini romanci, che quindi possono usarlo anche nei rapporti con l’amministrazione centrale dello Stato.
E’ una lingua ladina, cioè imparentata con i nostri friulano e ladino dolomitico.
Ha le solite s finali per i plurali e le seconde persone e alcune abitudini grafiche prese dal tedesco (i gruppi ch, sch, tsch).
-La Francia riconosce l’esistenza del còrso, idioma regionale della Corsica. E’ un riconoscimento politico, perché in realtà si tratta di un dialetto italiano, per di più tra i più vicini alla nostra lingua nazionale.
-Un caso simile esiste nella repubblica ex-sovietica della Moldovia: vi si parla un dialetto strettamente imparentato al rumeno, ma per motivi nazionalistici lo si considera una lingua a sé stante, di uso ufficiale nello stato.
Lingue regionali parlate sia all’estero sia in Italia
-A partire dall’anno Mille e per almeno un paio di secoli, la parlata romanza sicuramente più illustre, conosciuta anche oltre i suoi confini e dotata di un’ eccellente letteratura (la poesia dei Trovatori) era la cosiddetta lingua d’oc o occitana, diffusa largamente, in diverse varianti, tra il sud della Francia (in particolare in Provenza) e il nord dell ‘Italia.
Nei secoli successivi, per vicende militari e politiche e specialmente per la concorrenza del Francese, l’Occitanico regredi’ ad uno lo stato poco più che dialettale e solo abbastanza recentemente ha ripreso qualche vigore.
In Francia sopravvive specie nelle campagne e ha poco prestigio sociale, anche se teoricamente lo Stato ne ammette l’insegnamento. Da noi è parlato, ma senza predominare, in diverse vallate piemontesi fino a sconfinare in Liguria, e inoltre ne esiste una piccola isola in Calabria, residuo di antiche migrazioni. La sua tutela è applicata solo dal 2000 in seguito alle nuove leggi sulle minoranze linguistiche.
L’Occitano non si presenta unitario come le lingue finora esaminate, ma i suoi testi presentano ad ogni modo alcuni caratteri ben riconoscibili. Ci sono le s finali nei plurali e nelle seconde persone singolari, il lessico non ha molte delle parole germaniche entrate nel Francese, esistono lettere tipiche come ç, è,ò e i gruppi lh,nh. In varietà italiane, (ma quasi mai in quelle francesi, considerate più ufficiali) si ha una curiosa finale in o anziché in a nei femminili (Provenza = Prouvenço).-
-Il Catalano è fra le lingue regionali quella che sta avendo il maggior successo. Tutelata molto seriamente dalle leggi spagnole del 1981, si è imposta in un’area che comprende non solo la Catalogna (dove è decisamente più parlata, e con orgoglio nazionale, dello stesso Spagnolo), ma anche le isole Baleari, la regione di Valencia (con la sua variante locale , il Valenciano), la zona di Perpignan nel sud della Francia e, da noi, la città sarda di Alghero (l’ Alguer).
Mentre, se si va a Barcellona, si nota che il Catalano in pochi anni ha preso sempre più spazio non solo nei discorsi, ma nelle insegne, nella toponomastica e in ogni aspetto della vita civile, ad Alghero non sta presentando molta vivacità. E del resto in Italia è stato tutelato solo a partire dal 2000.
Il Catalano ha una spiccata somiglianza con certi tratti dei dialetti italiani settentrionali, il che garantisce una certa comprensibilità alla sua forma scritta mentre la pronuncia è abbastanza lontana dalla grafia. Oltre alle solite s finali, si notano lettere tipiche come l.l,ll,ny (il nostro gn) e la distinzione tra accento acuto e grave.
-In Val D’Aosta si parlano dialetti franco-provenzali, a metà strada tra Francese ed Occitanico, ma a livello ufficiale (riconosciuto dall’ Italia fina dal 1945) si usa il Francese letterario.
Lingue regionali parlate solo in Italia
-Il Sardo non ha espresso una lingua lettraria ufficiale e presenta almeno due varianti fondamentale, il logudorese a nord e il campidanese (più influenzato dall’italiano) a sud. E’ considerato la lingua neolatina più arcaica, perché presenta parole latine altrove scomparse (come domu= casa, crasa= domani, dal latino domus e cras) e in certe zone addirittura l’antica pronuncia della sillaba ke (kelu= cielo) che in tutte le altre lingue si è più o meno addolcita.
Benché molto parlato nell’isola, è tutelato ufficialmente solo dal 2000.Per lungo tempo si è preferito ritenerlo un dialetto italiano. Le sue possibilità di sopravvivenza sono discrete, legato com’è a tutto un mondo di folclore, musica tipica, cucina, mondo agro-pastorale e un ecosistema unico.
Ha le s finali che l’italiano ha perso, presenta come il rumeno maschili in u anziché in -o, ed è l’unica lingua romanza, a parte dialetti còrsi, che ha l’articolo determinativo su,sa.
-Il ladino dolomitico è molto simile al romancio da un lato, al friulano dall’altro e costituisce con essi il gruppo ladino.
La Repubblica si è comportata in modo alquanto strano con questa lingua minoritaria: ne ha ufficializzato l’uso, accanto al tedesco, nelle valli altoatesine di Gardena e Badia fin dal 1945, mentre ha atteso il 2000 per tutelare anche i ladini delle province di Trento e Belluno.
Come il sardo, il nostro ladino non ha espresso una lingua letteraria unica e la sua dispersione in vari dialetti ne rende più difficile la sopravvivenza. La varietà forse più rappresentativa è il gardenese. Tra i suoi caratteri, le consuete s finali, vocali con dieresi (in particolare la ë),l’uso frequente della y e il frequente passaggio della sillaba italiana ga, -ca, a cia,-gia .
-Per finire, il friulano, altra parlata che, definita lingua autonoma dai linguisti, è stata invece considerata spesso un dialetto dalle autorità pubbliche e in pratica assai poco tutelata prima del 2000. E’ la più parlata delle lingue ladine, ancora molto diffusa in buona parte del Friuli e perfino in qualche comune veneto.
Ha subito fortissimi mutamenti fonetici ed è veramente di difficile comprensione per un italiano di altre regioni. La sua varietà più illustre e normalmente usata per scritto nasce nella zona intorno a S. Daniele del Friuli.
Qualche tratto tipico: i femminili che in italiano terminano per a in friulano centrale hanno invece la desinenza e, mentre in genere le altre vocali finali sono scomparse; si trovano le solite s finali del gruppo ladino e di altre lingue; alla sillaba italiana ca corrisponde normalmente cja (casa=cjase),a ga corrisponde gja (gatto=gjat); si usa anche l’accento circonflesso.
4)Il museo miltimediale nella Casa della Musica a Palazzo Cusani in Parma, relazione presentata al concorso per guida turistica nella Provincia di Parma, giugno 2003
Una volta aperta la nuova Casa della Musica, nel novembre 2002, Parma si è trovata a posedere qualcosa di unico in Italia. Con un rilievo mediatico forse non sufficiente a livello nazionale, sono stati aperti in un solo centro musicale omnicomprensivo: un museo multimediale, un auditorium per musica da camera, una biblioteca specializzata, collezioni di partiture e incisioni storiche, un archivio audiovisivo e un luogo ove raccogliere e rendere fruibile al pubblico l’intero patrimonio di registrazioni dal vivo del Teatro Regio. Ma non è tutto: come sede del nuovo Istituto, alla città è stato restituito un prezioso complesso di fondazione rinascimentale e dalla lunga storia, Palazzo Cusani, appositamente restaurato dopo lunghi anni di decadenza e più recenti problemi di statica strutturale.
Palazzo Cusani: cosa fu e che aspetto ebbe nei secoli passati
Collocato in un’antichissima parte della città, non lontano dalla Cattedrale, rispetto alla quale è posto a nordest, il Palazzo è vicino al grande prato dove nell’alto Medioevo i guerrieri franchi solevano riunirsi in assemblea: traccia di questo passato si riscontra nel nome dell’adiacente chiesa di S. Francesco al Prato. Attualmente l’accesso al Palazzo avviene dal piazzale antistante, adiacente a piccoli giardini pubblici, che lo isolano in un’atmosfera sufficientemente tranquilla e silenziosa, adatta alla sua nuova funzione di contenitore musicale. Va detto però che la vicinanza alla chiesa andrebbe ben altrimenti valorizzata e si può sperare lo sia nel futuro, una volta restituito il complesso ecclesiastico a una piena fruizione cittadina.
L’edificio di cui ci stiamo occupando sorse nella seconda metà del XV secolo a cura della nobile famiglia Cusani, per fungere da dimora del ramo parmense di questa rilevante famiglia lombarda (si ricordi che nel Quattrocento Parma era sotto il governo dei duchi di Milano, prima Visconti e poi Sforza). I Cusani vissero nel Palazzo sino all’inizio del XVII secolo, decorandolo con statue ed affreschi, non più riscontrabili in loco. Poi il marchese Galeazzo Cusani cedette la casa al Comune. Nel 1612 vennero costruite le colonne in stile dorico , che a tutt’oggi formano il peristilio del cortile d’ingresso. Pochi anni dopo Palazzo Cusani fu scelto come sede della rinomata Università di Parma e tale restò fino al 1768. Alcuni affreschi purtroppo solo parzialmente conservati sotto le volte del cortile ancora ci mostrano gli stemmi di diversi nobili professori che insegnarono qui.
L’edificio nel 1778 sotto il duca Ferdinando di Borbone passò ad essere la Zecca. Più tardi l’amatissima duchessa Maria Luigia, seconda moglie di Napoleone, decise di trasferir qui il Tribunale (correva il 1820), visto che nel frattempo S. Francesco al Prato era divenuto un carcere. Un ulteriore cambiamento vi fu nel 1924, quando il palazzo fu adibito a scuola. E questo fu l’ultimo modo di utilizzarlo, fino al 1983, quando un terremoto costrinse la scuola a spostarsi altrove: l’evento sisimico aveva infatti seriamente compromesso la statica e non vi erano più le condizioni di agibilità.
Superfluo dire che lo spazio interno venne modificato molte volte nel corso dei secoli, secondo le differenti necessità pratiche: attualmente è stato rimaneggiato tenendo conto della destinazione delle diverse stanze ai compiti specifici e differenziati di museo, spazio per esibizioni pubbliche, archivio, sala di studio, punto di ristoro e così via.
Oggi, dopo le importanti opere di restauro, il Palazzo ha di nuovo il bel colore della sua pietra, l’ elegante cortile con parte degli affreschi dipinti nel periodo dell’Università e, nel suo centro, un notevole gruppo scultoreo di dimensioni gigantesche: Ercole in lotta vittoriosa col gigante Anteo, rappresentati in bronzo dall’artista olandese Theodor van der Sturk nel 1687 (la data è visibile sotto il piede destro di Anteo). Questa statua (dal popolino affettuosamente ribattezzata I du brasè) in precedenza restò collocata a lungo sotto il portico del Palazzo Comunale, dove ora la sostituisce una copia: simboleggiava la forza della città di Parma e dei suoi Duchi contro i nemici.
All’ingresso, sulla sinistra, si trova il locale di accoglienza, dove sostano le incaricate di fornire informazioni (e, si teme, un giorno, di far pagare il biglietto d’ingresso, mentre sarebbe alto segno di civiltà che l’accesso rimanesse gratuito, a educazione del pubblico, come è stato finora). E’ esposto molto materiale informativo di buona fattura grafica sulla Casa della Musica stessa e anche su eventi o luoghi interessanti a livello culturale nella vita cittadina, come ad esempio i concerti previsti all’ Auditorium Paganini o gli spettacoli in programma al teatro Regio.
Oltre a questo spazio introduttivo e alla confortevole caffetteria il pian terreno è dedicato esclusivamente al museo multimediale, che occupa quattro stanze e che costituisce l’oggetto della seguente descrizione.
Il museo multimediale
A modo d’introduzione generale va premesso che il museo sviluppa fondamentalmente il tema dei teatri per musica esistiti o esistenti in città, dando al visitatore una visione complessiva dell’importanza, presente e passata, assunta dal teatro musicale nella vita di Parma, luogo ben noto nel mondo come una della capitali del melodramma. L’esposizione si svolge in quattro sale, ognuna dedicata ad un argomento specifico, in ordine cronologico: in realtà l’ultima è sostanzialmente solo un piccolo auditorium.
La scelta espositiva è stata di chiudere le grandi finestre rinascimentali e quindi di privare l’ambiente della luce naturale, per privilegiare un’ esposizione prevalentemente articolata in bacheche e vetrine, illuminata ognuna da fonti luminose individuali. Si è perso forse un effetto scenografico, non valorizzando la natura del palazzo, ma si è ottenuta una mostra efficace e funzionale.
I stanza
La prima stanza è dedicata alle sale esistenti in Parma prima del 1829, anno di apertura del Regio: sono il teatro Farnese, fondato come teatro di corte dalla prima dinastia dei Duchi, e il teatro Ducale, costruito dalla stessa famiglia ma adottato come proprio anche dalla dinastia seguente (i Borbone).
Non appena entrato, il visitatore è avvolto da musica barocca vocale accompagnata da strumenti, il che lo immerge subito nell’atmosfera appropriata: linee musicali nette, virtuosismo tecnico, splendore di timbro rievocano i fasti del primo Settecento, oppure sonorità policorali e fastose ci presentano lo stile secentesco: sono questi i due secoli rappresentati nel primo spazio espositivo. I primi oggetti esibiti sono valide copie moderne di strumenti che possono esser considerati i più importanti nei complessi barocchi: un liuto a 7 corde e una viola da gamba a 6 corde. Ulteriori copie fedeli di strumenti antichi sono in mostra più avanti nella stanza: flauti, un violino barocco, una viola d’amore, una viola da gamba soprano. Strumenti simili certamente suonarono al Farnese, primo edificio illustrato in questo museo, perché rientravano nell’organico tipo di una partitura in stile monteverdiano (come quella che, vedi oltre, inaugurò il teatro). Una mappa di Parma nel XVII secolo opportunamente indica la collocazione del teatro nella città di allora. A fianco se ne vede un modellino ligneo. Il Farnese fu costruito nel 1618 ed inaugurato nel 1628, sotto il lungo ducato di Ranuccio I, per celebrare le nozze del figlio e successore Odoardo: il suo ritratto campeggia qui come il più grande nella serie che effigia tutti i duchi della famiglia. Vicino a tali immagini il visitatore trova disegni e progetti della costruzione, e inoltre documenti riguardanti Claudio Monteverdi, visto che la sua partitura Mercurio e Marte venne eseguita come parte integrante della festa di apertura. Una musica di quel tipo sarà certo stata diversa da quanto la colonna sonora del museo propone, perché priva di grande coro e non ancora strutturata in grandi arie barocche, bensì basata sull’alternanza di incisi melodici relativamente brevi, interludi strumentali e brani costruiti secondo il procedimento (nuovo all’epoca) del recitar cantando, che intendeva rievocare le melopee della tragedia greca.
E’ un peccato che un teatro così bello, aperto in modo talmente splendido e con musica tanto significativa, sia stato usato non più di dieci volte dai Farnese, solo in occasioni speciali: la tradizione che sarebbe potuta cominciare con Monteverdi non si sviluppò mai, e la stessa partitura monteverdiana andò perduta. L’ultima occasione di uso ufficiale per la struttura risale al 1732, quando si festeggiò l’effimera ascesa al trono ducale di Carlo I, il Borbone figlio di Elisabetta Farnese che ereditava uno stato rimasto privo di legittimo successore. Il teatro era ormai cadente quando Parma decise di restaurarlo per le grandi celebrazioni del 1913 (I centenario verdiano). Grande musica tornò allora a risuonare nella venerabile sala ed alcune foto rievocano i restauri e la prima esecuzione. Sfortunatamente, nuovi e più gravosi lavori furono necessari dopo il bombardamento del 1944: sono impressionanti le immagini che mostrano lo stato del teatro alla fine della II Guerra mondiale.
Al giorno d’oggi il Farnese risulta ancora una volta, conformemente alla sua lunga storia, quasi inutilizzato: riceve sì molti visitatori come ingresso della Galleria Nazionale, ma quasi mai assolve alla sua funzione in teroria primaria, quella di contenitore per spettacoli. Sarebbe interessante che in questo museo trovassero posto anche testimonianze fotografiche o filmiche di occasioni recenti in cui, per eccezione, qualche manifestazione abbia avuto luogo nella grande sala lignea.
Proseguiamo nella visita.
Il primo corridoietto creato all’interno della stanza possiede un suo monitor, che trasmette in permanenza estratti di opere barocche. Intorno sono esposti disegni di scene e costumi barocchi.
La restante parte della prima stanza è dedicata al secondo teatro, il Ducale, costruito da Ranuccio II nel 1687 e ancora in uso sotto i Borboni (a partire dal 1748). Conteneva fino a 1200 persone e poteva se necessario venire aperto non solo per i nobili, ma anche per i sudditi. Infatti alla fine del Seicento aveva preso ad affermarsi la concezione moderna: il teatro non era più solo luogo di delizie per una corte o sito di meditazione per spiriti eletti, ma iniziava a divenire punto di aggregazione sociale e centro di svago pubblico. L’esempio di primo teatro d’opera pubblico era già stato dato a Venezia col teatro San Luca, e il Ducale veniva ad inserirsi nella nuova tendenza culturale; solo in parte, però, perché restava vero che questo teatro non era un’ impresa commerciale indipendente, ma restava patrimonio dei duchi e ne veniva consentito l’accesso a persone estranee alla corte in modo più o meno arbitrario. L’antico teatro Ducale ora è scomparso, quindi le immagini che qui ne rievocano la planimetria rivestono un particolare interesse. Si hanno anche alcuni elementi riferiti al compositore Traetta, che intorno al 1760 tentò di soddisfare il desiderio del nuovo duca Filippo di Borbone andando in direzione di una riforma del melodrama, con la rappresentazione sulle scene ducali di tre drammi neolassici per musica: Ippolito e Aricia, I Tindaridi e Le feste d’Imeneo. L’esperimento ebbe scarso successo e il vero riformatore dell’opera fu pochi anni dopo Gluck a Parigi e Vienna: ecco una nuova occasione perduta per Parma, che avrebbe potuto qualificarsi come capitale di un nuovo stile musicale.
Molti dei migliori cantanti attivi alla fine del XVIII secolo e all’inizio del successivo cantarono al Ducale nel repertorio più in voga: tra loro sono ritratti uno degli ultimi famosi castrati (Marchesi), il soprano Grisi, grande belliniana, il tenore Donzelli, prediletto da Donizetti. Non mancano documenti d’epoca dedicati a Paër, il compositore ed operista parmigiano (1711-1839) che ebbe una carriera brillante, specie all’estero, e comunque fu famoso anche nella sua città natale. Ancor più importante fu la presenza a Parma (ben sottolineata con opportuna iconografia in questo punto del museo) di Paganini: cercò di riformare in direzione sorprendentemente moderna la gestione dell’orchestra ducale ai tempi di Maria Luigia, che gliene affidò con lungimiranza la guida nel quinquennio 1835-1840. Intendeva in pratica introdurre la figura, non ancora esistente, di un vero e proprio direttore, andando al di là del ruolo che allora veniva comunemente riconosciuto in sede concertativa ed esecutiva al Primo Violino. Egli amò molto la città ed ora vi è sepolto, nel cimitero della Villetta.
Al Ducale non si faceva solo musica classica: puntualmente, dei manifesti d’epoca rievocano altri spettacoli lì proposti, come danze, pantomime, e persino giochi d’azzardo. Insomma, le cose andavano come negli altri teatri dell’epoca, a partire dai più grandi come il San Carlo di Napoli e La Scala: la cosa principale, fino a un Ottocento molto inoltrato, non era il rispetto dell’arte, ma il puro divertimento.
II stanza
E’ dedicata al Teatro Regio, considerato fino ad oggi luogo saliente nel mondo del melodramma, tanto italiano quanto internazionale.
I primi oggetti esposti sono tre Muse in bronzo dorato prese dal grande lampadario del 1853, riprodotto in effigie, che si usò fino al 1890, quando venne introdotta l’illuminazione elettrica.
Poi abbiamo il manifesto originale di Zaira, l’opera di Bellini scritta per l’inaugurazione del teatro nel 1829 (all’epoca il teatro si chiamava non Regio ma Nuovo Ducale, perché veniva a sostituire il Ducale costruito dagli ultimi Farnese). Maria Luigia, una fine intenditrice ed esecutrice di musica, prediligeva Bellini: ebbe a scrivere Bellini piace sempre, mentre Verdi passerà, perché non ha scuola. Sfortunatamente, pur avendo a disposizione alcuni tra gli astri maggiori del Belcanto, come il basso Lablache e il soprano Lalande, ambi indicati sul manifesto inaugurale, il giovane compositore non seppe raggiungere un alto livello in questa partitura, che in pratica uscì subito dal repertorio: ancora una volta, dopo Monteverdi, Traetta e Paganini, Parma perse l’opportunità di collegare il proprio nome al contributo significativo di un grande Maestro.
Come già accennato, Maria Luigia non comprese il genio nascente di Verdi, ma va ricordata la sua notevole cultura musicale: la sovrana cantava, teneva regolari accademie a corte e possedeva un archivio di alcune migliaia di partiture, alcune della quali figurano qui esposte in una bacheca, sontuosamente rilegate (il grosso della collezione è al Conservatorio).
A fianco si apre uno stanzino, dove uno schermo presenta musiche operistiche dell’Ottocento e rare immagini di repertorio mentre tutt’intorno si vedono i progetti per la costruzione del Nuovo Ducale: risultano particolarmente belli i bozzetti per il monumentale sipario neoclassico del Borghesi (opera del Toschi). Interessante inoltre una mappa di Parma ai tempi di Maria Luigia. La città non s’ era poi molto ingrandita rispetto alla cartina topografica di epoca farnesiana che si era incontrata appena entrati al museo.
La sezione successive del percorso espositivo presenta in alcune bacheche oggetti riferiti al periodo compreso tra la fine della carriera di Rossini (1829) e l’inizio della popolarità di Verdi (anni Quaranta e primi Cinquanta), che corrispondono alle stagioni iniziali del nuovo teatro. Abbastanza presto, nel 1849, esso venne chiamato Regio, come si nota già in manifesti degli anni Cinquanta. Locandine e manifesti permettono anche di seguire la graduale introduzione di un repertorio straniero (con Gounod o, piuttosto in ritardo, con Wagner). Naturalmente, come era normale fino a circa quarant’anni fa, tutto si dava in traduzione italiana.
Un manifesto speciale testimonia la presenza in teatro a Parma di Giuseppe Garibaldi (1862).
E’ interessante l’esame di bozzetti per costumi di scena di metà dell’ Ottocento: eleganti e ben rifiniti, rappresentano una tradizione che ancor oggi è ben viva nel modo classico italiano di eseguire opere barocche, romantiche o belcantistiche, mentre all’estero è ormai usuale vedere produzioni in abiti moderni.
Alcuni documenti e immagini rievocano i primi anni del Conservatorio di Parma: da Scuola di Musica, venne trasformato in Conservatorio (col valore quindi di un’ accademia statale) grazie all’interessamento di Verdi, che propose Boito per la carica di direttore. Per alcuni mesi, il famoso poeta e musicista, autore dei libretti verdiani di Otello e Falstaff, accettò l’incarico e ancor oggi l’Istituto porta il suo nome. Anch’ egli però, come già il suo mallevadore Verdi, non compose opere per il Regio, alla cui storia quindi continua a mancare a tutt’oggi il vanto mitico di una Prima davvero rilevante.
I manifesti che troviamo poi annunciano il nuovo secolo, con la loro grafica che volge al Liberty e coi nomi degli autori appartententi alla Giovane Scuola, come Mascagni e Giordano (per tacer di Puccini): le loro opere vennero assai presto proposte al severo giudizio del pubblico parmigiano. Alcune si affiancarono alle partiture del Verdi maturo nelle preferenze del pubblico, come Fedora o Cavalleria Rusticana. E’ questo il momento in cui comincia a circolare nell’ambiente teatrale il mito del temibilissimo loggione del Regio. Ecco le sue esigenze: le voci devono essere sempre piene, sonore, sane, intonate; gl’interpreti devono spendersi generosamente; altrimenti dal Regio non si passa. Questo sarà più o meno il motivo conduttore della vita operistica cittadina in tutto il ventesimo secolo, e cantanti, direttori, agenti dovranno ben tenerne conto.
Oltre ai nuovi autori, i Parmigiani stavano imparando ad capire Wagner, mai eseguito prima del 1889 in città, perché a lungo apprezzarlo era stato considerato una sorta di alto tradimento verdiano. Una bacheca è qui dedicata ai primi maggiori interpreti di Wagner al Regio (un nome per tutti: il tenore eroico Borgatti) e non per caso presso ad essa troviamo lo spazio espositivo dedicato a Toscanini: il grande direttore, nato a Parma nel 1867 e diplomato in loco, fu il primo grande musicista a studiare con la stessa passione ed accuratezza tanto Verdi quanto Wagner. Ai suoi tempi, in Italia molti ritenevano Wagner responsabile di aver introdotto una maniera compositiva cerebrale, antimelodica, antitaliana; parimenti, all’estero spesso si equiparava Verdi ad un canzonettista, salvandone magari solo le ultime due-tre opere. Toscanini invece dimostrò quanto un grande direttore potesse ricavare dallo studio onesto di entrambi. Il suo mito non tramonta a Parma, dove si conserva la sua casa natale, trasformata in museo: forse sarebbe stato opportuno avere qui al museo multimediale un richiamo esplicito, anche iconografico, alla possibilità di visitare quell’ ulteriore piccolo luogo connesso alla memoria musicale della città.
Procedendo, s’incontrano foto di grandi cantanti che trionfarono al Regio nella prima parte del XX secolo: in pratica, quasi tutte le star del melodrama, con qualche rilevante eccezione tra le quali si nota Caruso. Seguono fotografie e manifesti dedicati alla vita ed alla carriera del compositore concittadino Ildebrando Pizzetti, la cui memoria viene (almeno nelle intenzioni) tenuta alta da Parma mentre a livello nazionale bisogna riconoscere che si è un po’ opacizzata.
Se un visitatore è già stato al Regio, ne scoprirà ora con piacere un modello ben fatto, con tanto di sipario (quello del Borghesi, già citato).
Un po’ di spazio si merita anche un altro teatro che pur ebbe il suo rilievo nella vita musicale parmigiana: il Reinach. Fondato tra il 1866 e il 1871 grazie al sostegno finanziario del banchiere ebreo Reinach, fu usato per oltre settant’anni come palcoscenico alternativo al Regio, e inoltre per l’operetta, il balletto e vari concerti: era cioè, secondo la definizione corrente all’epoca, un politeama. Meno costoso, permetteva alla gente di andare frequentemente a teatro, il che contribuì non poco a formare un pubblico esigente ed esperto. Nel 1938 il fascismo, in seguito alle leggi razziali, cambiò il nome in Paganini (denominazione ereditata oggigiorno dal nuovo auditorium creato da Renzo Piano a est del centro storico). Disgraziatamente al teatro non restava lunga vita: fu demolito dalle bombe degli Alleati nel terribile 1944.
III stanza
Ognuno sa bene che Verdi è uno dei simboli di Parma nel mondo. A lui è dedicata questa stanza. Ma il rapporto Verdi/Parma durante la vita del Maestro, se ben consideriamo, fu l’ennesima occasione perduta (la più grande?) per la città. Ci pare incredibile, ma: Verdi non scrisse mai nulla per il Regio; sappiamo da documenti conservati a Busseto che quando era un giovane promettente chiese a Maria Luigia di suonare a corte per il suo compleanno e nemmeno ebbe risposta; non fu nemmeno ricevuto a corte dai successivi Borboni, per quanto abbia sempre conservato la residenza all’interno del Ducato (appunto a Busseto).
Tuttavia, resta innegabile che la gente di Parma abbia amato profondamente le sue opere e ne sia diventata depositaria, già a metà dell’Ottocento. Stranamente in questa stanza non si trova materiale specifico sulla prima parmgiana del Nabucco (di poco successive alla première scaligera) che valse al giovane autore finalmente un’udienza con Maria Luigia e segnò il trionfale ritiro dalle scene della futura moglie di Verdi, il soprano Strepponi. Subito dopo arrivò la dedica alla Duchessa dei Lombardi alla I Crociata. La più importante esecuzione verdiana in città durante la vita del compositore fu però la seconda italiana di Aida nel 1872 (ne vediamo qui il manifesto originale): gli esecutori erano gli stessi dell’ appena precedente esecuzione scaligera (successiva al debutto del Cairo, ma prima rappresentazione della versione definitiva); compariva anche la Stolz, il soprano favorito di Verdi in quell giro d’anni.
Troviamo foto e manifesti relativi alle celebrazioni verdiane, tenute al Farnese, al Regio e al Reinach, nel 1913 per il primo centenario della nascita. Naturalmente anche Busseto non rimase a guardare e organizzò due splendidi spettacoli (ne vediamo i manifesti) con la direzione di Toscanini.
Nella III stanza, su apposito schermo, si possono ammirare anche dei video di famosi interpreti e di celebri rappresentazioni. Fanno invece un effetto mogio le foto del monumento eretto da Ximenez nel 1913 davanti alla stazione. Rappresentava non solo il musicista attorniato dalle Muse (come si vede nel mozzicone dell’opera ancora esistente e incongruamente ficcato alla bell’e meglio in Piazzale della Pace), ma anche ogni suo melodramma, simboleggiato da un personaggio-chiave: si veniva a formare un intero portico monumentale. Le foto sono tristi non di per sé, ma perché ci ricordano le bombe che cancellarono questo importante complesso, follemente non restaurato in tempo di pace per dare spazio alla speculazione edilizia.
Lo stretto corridoio che conduce fuori da questa stanza è il più interessante: ospita due schermi che a ciclo continuo proiettano film d’opera come il Simon Bocanegra diretto da Abbado (visto a Parma nel Festival verdiano del 2001) e inoltre quattro schermi interattivi. Il visitatore, con un semplice tocco della mano, può interrogare un archivio-dati comprendente informazioni sulla biografia verdiana, tutti i libretti, notizie essenziali relative ad ognuna delle opere, repertorio iconografico verdiano; soprattutto è possibile ascoltare in cuffia brani presi dalle migliori edizioni discografiche di tutti i titoli del Maestro.
Dopo tutto un percorso, insomma, in cui il Museo si è configurato (come tradizionalmente) nel senso di deposito/esposizione di reperti, ordinati per temi - a loro volta articolati internamente in ordine cronologico- , questa sezione finale presenta un aggancio alla più moderna concezione di museo/laboratorio: il materiale esposto può fungere da stimolo e venire manipolato dai visitatori, che così facendo sono invitati ad entrare nella materia in modo più coinvolto.
IV stanza
Alla fine del percorso il visitatore trova una piccola sala da concerto, concepita per un pubblico di non oltre sessanta spettatori. La Casa della Musica possiede al primo piano un vero auditorium di 180 posti, sede già dal 2003 di una stagione cameristica, ma ad ogni modo anche questa piccola stanza ha il suo ruolo, essendo particolarmente adatta a piccole esibizioni offerte magari da studenti, oppure a conferenze. Ai fini di un lancio in sede turistica di questo Museo, attualmente assai poco frequentato ed escluso dai normali tour di gruppo (anche perché non incluso per ovvi motivi cronologici tra i siti individuati dalla legislazione turistica emiliana), sarebbe auspicabile incentivare l’abbinamento tra le visite e brevi concerti riservati di musica lirica o barocca. Qualcosa di simile è possibile per esepio a Busseto, presso il Salone Barezzi.
Presso il pianoforte a coda, alcuni begli abiti di scena creati per personaggi verdiani danno l’idea di quanto perfetti e accurati possano essere i costumi quando si esegue un melodramma in un teatro italiano dalla tradizione solida e ininterrotta come quello di Parma. Il pubblico locale continua a mostrare scarso gradimento per messe in scena moderne in senso lato: anzi, forse l’intransigenza per le voci, che tanto aveva reso temibile il loggione del Regio in precedenza, sta dando il passo a una inattaccabile severità verso gli esperimenti dei registi; prova ne siano alcune clamorose contestazioni rivolte ad allestimenti eccentrici, durante il Festival verdiano del 2001.
Conclusa la visita, attualmente gratuita, il visitatore che non sia un semplice appassionato o curioso, ma almeno per qualche aspetto un tecnico, studioso od esperto, come può ritenersi ad esempio uno studente di canto del Conservatorio, ha modo di accedere ai piani superiori. Lì il piccolo spunto d’interattività fornito, poco prima di lasciare il pian terreno, dagli schermi della terza sala, può svilupparsi in ricerche discografiche, bibliografiche, archivistiche, con una sorta di bella prosecuzione ideale del tragitto intrapreso nel museo multimediale.
Stefano Torelli
aprile 2003
5)Introduzione al CD dedicato ai Responsori di Natale Pelicci (1845)
Vedi il Cd nella sezione Musica Antica
I n t r o d u z i o n e
Su Natale Pelicci, musicista umbro del diciannovesimo secolo (1807-1880), possediamo per ora notizie biografiche frammentarie e talora di tradizione orale non ancora suffragata da riscontri oggettivi. La sua carriera, iniziata nella nativa Gubbio, lo portò a operare presso il Santuario di Loreto e forse,ma non ne abbiamo trovato prove sicure, ad affiliarsi alla prestigiosa Accademia Filarmonica di Bologna. Poi , sposatosi con una donna di Cantiano (Pesaro), rinunciò a più vasta gloria e si trasferì in quella zona di provincia marchigiana, peraltro abituata ad una vita musicale lontana dalla banalità. Parte della sua produzione seppe adattarsi alla semplicità, seppure di buon livello, dei mezzi a disposizione: il bell'organo Morettini della parrocchia, il coro dei canonici, il giovane promettente tenore Capponi, che poi sarebbe stato un Radames apprezzato da Verdi . Questo è l’organico di opere come i Responsori per la Settimana Santa del 1845 qui per la prima volta incisi, i Responsori di Natale, il Miserere , le Sette parole di Cristo .
Non venne mai meno a Pelicci la solida preparazione armonica e contrappuntistica, né l'interesse per quanto stava accadendo nella musica italiana di metà Ottocento: la conoscenza dello stile belliniano,donizettiano e ovviamente (vista la contiguità territoriale) rossiniano è evidente. Né gli mancarono voglia od occasioni di cimentarsi in composizioni, tutte giunteci, destinate a complessi ben più ricchi di mezzi (è probabile che potesse servirsi di orchestrali perugini): nacquero così lavori per soli, coro e orchestra (Messe e Inni per Santi patroni come Ubaldo e Giovanni) e addirittura un’opera buffa in due atti, dal divertente titolo Il Giúggiolo, di cui ci è pervenuta la partitura che ne renderebbe possibile una piena riesumazione teatrale. A lato di queste attività, va ricordato che a Cantiano Pelicci era anche maestro della banda: ecco presenti nella sua produzione marce e ballabili.
I suoi lavori rimasero manoscritti, mai più eseguiti dopo la sua morte, negli archivi di Umbria (a Gubbio restano da studiare sette faldoni tutti suoi) e Marche: solo ora che il musicista francescano Varotti e l'organista Santini li vanno ritrovando si scoprono opere capaci di suscitare la pronta e lungimirante attenzione delle comunità locali, interessate ad un immediato rilancio, e del mondo musicale.Varrebbe proprio la pena di por mano a uno studio sistematico di tanto materiale, per vedere innanzitutto se nella seconda parte della sua parabola creativa l’autore sia riuscito a mantenere sempre alta la qualità compositiva, evitando le secche della routine, e poi se e come abbia recepito, visto che nel 1845 era troppo presto, la lezione verdiana ormai gigante nel panorama italico.
In particolare sono oggetto di questa incisione i Responsori del Venerdì e (in parte) quelli del Sabato Santo, composti (assieme a quelli del Giovedì Santo) nel 1845 per coro maschile a 3 voci con assoli e accompagnamento d'organo. Il manoscritto, scritto in grafia molto corrente, usa la chiave di tenore per le prime due linee vocali, quella di basso per la terza e l’ abbinamento violino+basso per lo strumento; c’è qualche errore, qualche incompletezza e spesso le indicazioni, troppo sommarie, per l’organo hanno richiesto all’esecutore un completamento affidato all’esperienza personale, come certo avveniva già allora.In particolare la linea del basso organistico è spesso incompleta e in un caso (Plange quasi virgo ) ridotta a un’annotazione sommaria non cifrata: l’integrazione è stata affidata a Stefano Parise. Da rilevare è infine che, secondo un uso affermato all’epoca, le didascalie relative ai giorni del triduo sono sfasate (Pelicci indica Mercoledì, Giovedì e Venerdì anziché Giovedì, Venerdì e Sabato).
Le celebrazioni della Settimana Santa avevano a Cantiano un rilievo tutto particolare, per la tradizione medievale allora ancor viva della cosiddetta Turba , una sacra rappresentazione legata alla Passione di Cristo: i brani di Pelicci vanno immaginati in quel tipo di contesto molto sentito e coinvolgente.
Anche per il pubblico moderno queste musiche possono ambire a nuova,vera popolarità: sono notevoli la varietà di accenti, la larga effusione sentimentale, l'espansività melodica, l'attenzione alle potenzialtà drammatiche del testo latino. All'interno di un orizzonte di riferimento melodrammatico, fondamentale per un autore italiano dell'Ottocento, la bontà di questi responsori è sorprendente, cosiccome la capacità che Pelicci mostra nel servirsi, all'interno di un testo sacro e per eccellenza "grave", di tutte le forme diffuse nel lessico musicale del tempo: la romanza, l' arioso, il recitativo, il valzer lento, l'imitazione canonica in stile severo arcaicizzante, l'unisono corale patetico.L’effetto complessivo è dunque vario, teatrale, spettacolare, quanto mai lontano dall’austera solennità che tradizionalmente si associa ai testi di questi Responsori. Ciò non significa mai però che l’ orecchiabile scada nel banale e nell’effettistico, vista la buona qualità media della scrittura e la freschezza dell’ispirazione.
Stefano Torelli
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